La tormentata vicenda fra me e la mia precedente amministrazione, la Polizia di Stato per l’appunto, si è trascinata più o meno dal 1984 al 2000.
In principio, agente in servizio alla Questura di Verona, denunciavo la sparizione di un quantitativo di droga e il conseguente accanimento disciplinare riservatomi che era sfociato addirittura in insoliti accertamenti psichiatrici.
Era il 1984, e in quei giorni non potevo immaginare che un semplice gesto di integrità avrebbe sconvolto tutta la mia vita.
Una quantità di droga era sparita, e la verità non poteva restare in silenzio.
La mia voce si alzò per cercare trasparenza, ma trovò subito un muro.
I colleghi mi guardavano con sospetto, mentre i superiori sembravano ignorare l’entità del fatto.
Mi sentivo solo, ma la verità era una compagna troppo preziosa per voltarle le spalle.
Mi rivolsi dapprima al dirigente della Squadra Mobile, informandolo che il quantitativo di droga che avevo sequestrato e dato alla polizia scientifica per quantificarlo, mi era stato scarsamente restituito.
Non ottenendo esaustiva risposta, mi rivolsi invano al Questore, mettendomi a rapporto per informarlo dell’accaduto.
Mi presentai infine ad un Giudice Istruttore, il Dott. Avolio, credo, al quale raccontavo quanto mi era accaduto.
Fui vivamente invitato a pensarci bene prima di proseguire.La mia determinazione era tale, comunque, che mi accompagnò da un Sostituto Procuratore, credo fosse Papalia, il quale scrisse qualcosa e mi fece firmare la deposizione.Uscii dal Palazzo di Giustizia un po’ perplesso ma certo di aver fatto la cosa giusta.
Da piazza Dante tornai a piedi al Raggruppamento di Polizia in via San Vitale e trovai il Comandante, allora il Capitano Marangoni, l’addetto all’armeria e il medico di polizia.
Mi fu ordinato di restituire l’equipaggiamento in dotazione individuale e di accettare l’accompagnamento con un ambulanza dell’ospedale militare di Verona per essere ricoverato presso quella struttura per accertamenti di natura psichiatrica.
Riuscivo a sottrarmi all’accompagnamento coattivo, asserendo che avrei obbedito all’ordine presentandomi alla struttura militare personalmente e rifiutando il ricovero.
Ed è così che sono iniziati gli “accertamenti psichiatrici”.
Anche se avevo rifiutato il ricovero nella struttura ospedaliera militare, ottemperavo alla visite che mi imponevano.
Le stesse però venivano fatte da uno specialista esterno e precisamente dal Prof. Trabucchi, che comunque in me non trovava alcuna anomalia di natura psichiatrica.
Rimasto sospeso dal servizio, venivo nuovamente rimandato, oltre un mese dopo, dallo specialista, il quale si era meravigliato del mio ritorno, confermando i miei sospetti sul fatto che ero già stato da lui dichiarato idoneo al servizio la prima volta.
Nel frattempo, della mia denuncia in Procura, non sapevo più nulla.
Tutto questa situazione ha influito sulla mia vita quotidiana e sulla mia fiducia nel sistema.
Riflettevo così sul valore dei principi in cui credevo e il dilemma di scegliere se continuare o meno a lottare.
Ogni giorno che passava, infatti, mi chiedevo se stessi facendo la cosa giusta, se fosse normale essere punito per aver fatto semplicemente il mio dovere.
Ma, a ogni dubbio, seguiva la convinzione che arrendersi significava negare la mia stessa esistenza, i valori per cui avevo scelto di servire quella che credevo fosse la mia Patria.
Quello che non sapevo, però, è che questo era solo l’inizio.
In verità avevo acceso una miccia pericolosa, e io, inconsapevolmente, mi ero appena preparato a una battaglia molto più grande di quanto potessi immaginare.
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Ma il tempo non sempre è tiranno e la testimonianza che mi è arrivata molti anni dopo è per me davvero emozionante e preziosa.
Desidero raccontarvi brevemente di questa testimonianza perché vorrei trasmettere sia i fatti sia le emozioni e il profondo impatto personale di questa battaglia per la verità.
Non solo rappresenta un riconoscimento sincero di chi mi ha conosciuto durante il mio servizio in polizia, ma è anche una smentita chiara e potente contro le maldicenze e le calunnie.
Questo’uomo, allora giovanissimo ragazzo, racconta con gratitudine come ho fatto la differenza nella sua vita e in quella di altri giovani, riconoscendo in me un poliziotto “veramente al servizio della gente” e una persona “di gran cuore e rispetto”.
Ecco il messaggio facebook che AURELIANO STECCANELLA mi ha inviato.
Lo pubblico anche per contrastare le maldicenze di ex colleghi e dei soliti delatori che oltre a non conoscermi dimostrano solo tanta inutile cattiveria.
All’epoca dei fatti di cui parla avevo poco più di 20 anni e sono fiero di essere stato un poliziotto così … veramente al servizio della gente.
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Caro Sergio, finalmente, dopo tanti anni, sono riuscito a trovarti.
Ho sentito sbalordito alcune vicissitudini che ti hanno costretto ad abbandonare la polizia.
Ricordo quando prestavi servizio a Verona, sei stato un grande.
Una persona di gran cuore e rispetto…sia per la divisa che orgogliosamente indossavi, sia come uomo.
Ciò che hai fatto per noi, ragazzi un po’ sbandati a quel tempo, è rimasto sempre impresso nella mia memoria.
La tua amicizia, la tua dedizione per le cose giuste, per la verità, per il rispetto, sono ancora un esempio per me che ormai ho 47 anni.
Sono felice di averti ritrovato e constatare che, nonostante tutto, stai bene.
Non ti ho mai dimenticato.
Persone come te sono rare e avere la fortuna d’averle incontrate e conosciute, è sempre un onore.
Grazie per come sei.
6 agosto 2015
Con affetto, Aureliano Steccanella.
In momenti come questi, leggere le parole di chi mi ha conosciuto durante quegli anni è una consolazione.
A volte, le voci calunniose possono offuscare la verità, ma non riescono a cancellare i ricordi di chi ha visto da vicino cosa significava per me indossare la divisa con onore.
Avere questa lettera è, in un certo senso, una rivincita morale: mostra che chi mi ha calunniato non ha mai potuto macchiare il ricordo positivo che ho lasciato in persone come Aureliano.
Citare questo messaggio è un modo per riaffermare il miei valori e smentire tutte le dicerie che ex colleghi o delatori hanno cercato di diffondere.
Ho riflettuto sul motivo per cui ho scelto di servire come poliziotto e sui valori che guidavano il mio operato.
Questo contrasterebbe con la condotta di chi invece ha cercato di piegarmi ai propri interessi.
Le parole di chi mi ha apprezzato rappresentano il vero lascito della mia carriera, che resta per me fonte di orgoglio.
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Costretto a trasferirmi, nel 1986 denunciavo per peculato e contrabbando un Vice Questore, un Maresciallo e due Appuntati mentre mi trovavo in servizio al Settore di Polizia di Frontiera terrestre di
Bolzano – Commissariato di Malles Venosta (Bz).
Le controdeduzioni, accettate dal Procuratore di Bolzano Mario Martin (credo si chiamasse così), che replicava alla mia descrizione dei fatti con cui erano stati commessi quegli illeciti erano assurde e mendaci.
L’auto di servizio usata, in forza al commissariato e presa in prestito dai denunciati, sarebbe risultata in avaria da oltre un mese e ferma all’Autocentro di Bolzano col motore fuso.
Un fatto contestabilissimo e confutabile se solo avessero voluto credere.
Avevo chiesto io il trasferimento in quel posto, e all’inizio sembrava un’opportunità per ricominciare, per mettere finalmente alle spalle le difficoltà e i conflitti degli anni precedenti.
Ma ben presto capii che le ombre di quel sistema guasto non si erano mai realmente allontanate.
Sapevo che fare nomi e cognomi significava mettermi in pericolo, ma la coscienza mi impediva di girarmi dall’altra parte.
Non potevo rimanere in silenzio.
Ecco così l’immediata e violenta reazione dei superiori.
L’uso sistematico dei procedimenti disciplinari come arma per fiaccare la mia resistenza, rendendo chiaro che questa persecuzione non era casuale ma mirata a distruggermi psicologicamente e finanziariamente.
Riesplodeva così una inaudita, cinica e vessatoria opera di ritorsione contro di me, posta in essere da molti superiori soprattutto con l’abuso dello strumento disciplinare e a fronte della quale potevo solo “levare lo scudo” dei ricorsi amministrativi.In sostanza ero costretto a difendermi in moltissimi procedimenti disciplinari, per i più dannosi dei quali ricorrevo in sede giurisdizionale.
Si consideri che vivendo e traendo il mio sostentamento dallo stipendio, mia unica fonte di reddito, mi era impossibile oppormi a tutte le sanzioni disciplinari per una mera questione economica.
Infatti, come un orologio ben sincronizzato, le sanzioni iniziarono a sommarsi una dopo l’altra.
Ogni atto di insubordinazione inventato, ogni piccolo errore amplificato.
I procedimenti disciplinari erano uno strumento per tenermi in scacco, un’arma che i superiori usavano senza esitazione e per costruire un castello accusatorio per motivare la mia successiva destituzione.
Volevo difendermi con i mezzi a mia disposizione, come i ricorsi amministrativi, ma il peso economico di questa lotta era insostenibile.
Ero solo contro un sistema che aveva a disposizione infinite risorse e potere.
Ogni ricorso era una battaglia costosa, ogni istanza un sacrificio.
Mi sentivo come un soldato con uno scudo logoro in una guerra che sembrava senza fine.
Ogni nuova sanzione era un colpo, e ogni giorno trascorso a difendermi era una ferita invisibile.
Ma dentro di me resisteva una fiamma, una convinzione ostinata: quella che la verità, alla fine, avrebbe trovato il suo cammino e nonostante tutto, non ho mai abbandonato i miei valori e la mia integrità.
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E’ in fase di rielaborazione il testo che segue:
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Costretto a trasferirmi, nel 1986 denunciavo per peculato e contrabbando un Vice Questore un Maresciallo e due Appuntati mentre mi trovavo in servizio al Settore di Polizia di Frontiera terrestre di Bolzano – Commissariato di Malles Venosta (Bz).
Riesplodeva così una inaudita, cinica e vessatoria opera di ritorsione contro di me, posta in essere da molti superiori soprattutto con l’abuso dello strumento disciplinare e a fronte della quale potevo solo “levare lo scudo” dei ricorsi amministrativi.
In sostanza ero costretto a difendermi in moltissimi procedimenti disciplinari, per i più dannosi dei quali ricorrevo in sede giurisdizionale; si consideri che vivendo e traendo il mio sostentamento dallo stipendio, mia unica fonte di reddito, mi era impossibile oppormi a tutte le sanzioni disciplinari per una mera questione economica.
Destituito una prima volta nel 1987 e poi riassunto in servizio con ordinanza del TAR Lazio, consolidata da una successiva ordinanza del Consiglio di Stato, nonché dalla consecutiva sentenza in mio favore dello stesso tribunale amministrativo, venivo trasferito a Nettuno (Roma) presso il Centro di addestramento per Sovrintendenti e perfezionamento per i Ispettori della Polizia di Stato dove, come vincitore di concorso interno, concludevo l’addestramento per la nomina a V. Sovrintendente, costretto, l’anno precedente, ad abbandonare l’ultimo giorno di corso, perché destituito.
Mio malgrado entravo in graduatoria come ultimo fra quasi un migliaio di colleghi, (si consideri tutto l’aspetto retributivo legato alla posizione di qualifica) e, dopo un breve periodo venivo trasferito in Calabria nell’istituendo XII° Reparto Mobile … da Malles Venosta (Bz) ai confini con l’Austria e la Svizzera, all’estremo sud, (io sono nativo di Vicenza e mi ero arruolato con reclutamento regionale).
Nel frattempo, il disagio professionale, legato alla lontananza da casa, dai propri affetti, dagli amici nonché dalle infrante aspettative personali era alimentato dai palesi e insistenti inviti ad abbandonare la polizia.
Ogni giorno di più, infatti, ero destinatario di una vessante persecuzione posta in essere con l’abuso dello strumento disciplinare ma anche con una miriade di azioni “mobbizzanti” … la mia qualifica di V. Sovrintendente non riconosciuta dai superiori, comandato in servizio agli ordini di sott’ordinati, atteggiamenti e provocazioni anche fisiche.
Intraprendevo anche la strada dell’attività sindacale nel vano tentativo di contrastare il crescente abuso ma, non serviva a nulla … mai come in tale militanza durata molti anni, mi sono sentito così “venduto e tradito”.
La prima esperienza al S.I.U.L.P. (ero iscritto a tale sindacato quando denunciai i superiori a Malles); non serviva neppure quando militai nel So. di Po., un sindacato autonomo di polizia nel quale ho svolto anche funzioni di segretario provinciale e regionale per il Veneto nonché consigliere nazionale.
Nel 1989 venivo trasferito alla Questura di Treviso ma il persistere di una sistematica e implacabile attività persecutoria mi trovava sempre impegnato a difendermi anche da fallaci, spudorate e assurde accuse trascinate anche innanzi alla giustizia penale e tutte decadute; ricordo in particolare la presunta diffamazione di un funzionario di polizia che avrei posto in essere attraverso un comunicato sindacale, (in tale documento non vi è alcun riferimento al dirigente che non conoscevo e che era giunto a Treviso solo da poco).
Mi veniva inoltre revocata la patente di guida, ottenuta con esami regolari e non tramite la conversione da quella di polizia; nonostante il
ricorso al TAR Veneto, ero costretto a sottopormi alla revisione della patente, dopo quasi due anni di attesa, (periodo nel quale, non potevo guidare).
Era tale lo stillicidio di provocazioni e problemi creatimi sul posto di lavoro che avevo eletto domicilio legale presso lo studio di un avvocato per evitare di dovermi quotidianamente confrontare con le notifiche di nuovi procedimenti disciplinari; nonostante ciò, in più occasioni, venivo raggiunto addirittura fuori servizio, perfino in altre località … presso l’abitazione di familiari, mentre mi intrattenevo con amici … in locali pubblici.
La tormentata quotidianità professionale, comunque, non intaccava il mio senso del dovere e la mia professionalità; raggiungevo la qualifica di Ispettore e, per una serie di contestabili ragioni, non quella di Ispettore Capo, Superiore e Sostituto Commissario, come i colleghi di pari/corso; la professionalità, ma vorrei anche dire la passione che ho sempre avuto per tale lavoro, era confortata dal sostegno di molti cittadini di Treviso che con petizioni (anche di 150 firme), evidenziava il contrastato giudizio dei miei superiori, per i quali, rimanevo probabilmente il peggior poliziotto.
A seguito anche di tali petizioni, il sindaco del capoluogo della Marca inviava una lettera di protesta al capo della polizia per il trattamento riservatomi e alla quale fece “eco” una ispezione ministeriale il cui Prefetto Ispettore, LO MASTRO Ciro auspicava, assicurandomi in proposito, l’imminente trasferimento ad una sede di servizio richiesta inutilmente più volte gli anni precedenti; le sue conclusioni, inoltre, evidenziavano, in tutta la mia vicenda, non poche responsabilità da parte della stessa amministrazione di polizia.
Nonostante ciò, alcuni mesi dopo, il Ministero dell’Interno, avviava la procedura d’ufficio per il mio allontanamento da Treviso per incompatibilità ambientale … in pratica, venivo trasferito perché indesiderato, procedura usuale nel caso di poliziotti il cui comportamento risulti palesemente discutibile con le proprie funzioni); tale prassi, pertanto, giustificava la mia destinazione a chissà quale sede e mi umiliava.
La mia opposizione ad una simile soluzione, rafforzata dal documentato sostegno di molti cittadini, costringeva il Ministero a rendermi noto e a fornirmi copia, ai sensi della Legge 241/90, (quella della trasparenza negli atti amministrativi), di una lettera/petizione di una quarantina di colleghi della Questura di Treviso; proprio in tale scritto si chiedeva il mio allontanamento per non meglio precisati abusi e prepotenze da parte mia in danno di colleghi e addirittura di cittadini; il documento concludeva con la minaccia che, se non si sarebbe provveduto in tale senso, qualcuno sarebbe passato alle vie di fatto.
Oppostomi ad una simile spudorata calunnia il Ministero congelava il tentativo di trasferimento d’ufficio; presentavo denuncia contro gli artefici di tale documento, ma, come per le altre precedenti denunce, non conseguivo alcun effetto.
Rimanevo dunque a Treviso ma trasferito, dalla sezione volanti, alla divisione anticrimine della Questura dove, per molto tempo, nonostante la qualifica di ispettore, non disponevo di una sedia, di una scrivania, di un telefono, di una semplice penna per svolgere il mio lavoro; era tale la frustrazione che accusavo malessere ogni volta che venivo avvicinato da superiori per delle contestazioni.
Una mattina di dicembre del 1998, non sopportando oltre le angherie e la fortissima tensione, consegnavo distintivo ed armamento denunciando con atto scritto al mio dirigente e all’ufficio sanitario della Questura, la persistente gravissima persecuzione e la volontà di tutelare la mia salute psicofisica; ottenevo così la certificazione sanitaria, (dal medico di polizia), di uno stato d’ansia generalizzato con sei giorni di prognosi con effetto immediato.
Mi rivolgevo nel frattempo alla struttura sanitaria pubblica effettuando una successiva visita specialistica che confermava tale malessere, dipendente dalla situazione ambientale lavorativa, prolungandone il periodo di alcuni mesi.
Era chiaro, a quel punto, che il referto dello specialista della USL di Treviso, denotava lo stress occupazionale al quale ero sottoposto e pertanto rafforzava la mia denuncia scritta con la quale mi ero rifiutato di proseguire il servizio in tali condizioni.
Proprio per questo, infatti, mi veniva notificata l’ennesima contestazione di addebiti, con proposta di destituzione dal servizio (licenziamento).
Venivo accusato di mancata presentazione all’ospedale militare di Udine, per la visita di idoneità al servizio al termine del periodo di malattia.
In sostanza, tentavano di ignorare lo scomodo referto dello specialista dell’USL, asserendo che avrei disatteso la disposizione di presentarmi all’ospedale militare.
Il sanitario di polizia, in realtà, produceva un nuovo e diverso certificato medico relativo ai sei giorni di malattia assegnatemi, asserendo di avermene concessi solo cinque.
Un giorno in meno sul referto, infatti, non dava continuità al periodo di malattia che, nel frattempo, si era protratta con la certificazione sanitaria dello specialista dell’USL e che puntualmente avevo provveduto a notificare alla Questura stessa.
Smascheravo l’inganno, dimostrando di essere in possesso di una copia del primo certificato medico e sfumata la possibilità di perseguirmi disciplinarmente in tal senso, ignorando la responsabilità del sanitario di polizia, che non veniva deferito all’Autorità Giudiziaria o ad una commissione disciplinare, veniva promossa a mio carico una ulteriore contestazione … (questo documento era pubblicato in tale atto e messo a confronto con il vero e primo certificato medico del sanitario di polizia con quello prodotto in un secondo momento con un giorno in meno per tentare di accusarmi di non essermi presentato all’ospedale militare … il documento fotografico qui precedentemente pubblicato e conservato in atti è letteralmente sparito a seguito delle subite e pretestuose perquisizioni da parte degli ex colleghi).
Sulle ceneri del precedente tentativo, nasceva così l’ennesimo procedimento disciplinare; se prima venivo accusato di non essermi presentato all’ospedale militare, ora venivo accusato di essermi rifiutato di dare il consenso alle visite di idoneità al servizio.
L’assurdità e la falsità di una simile accusa è ampiamente documentata negli atti di quasi un anno di malattia protrattosi per fare questa visita che “inspiegabilmente” l’ospedale miliare di Udine ritardava a farmi.
Nell’evolversi dei fatti, più volte avevo inutilmente richiesto copia della mia documentazione sanitaria ma, solo dopo aver notificato una diffida a mezzo ufficiali giudiziari, ottenevo parte di essa dall’ospedale militare di Verona di II ^ istanza, la commissione alla quale avevo fatto appello contro la decisione del collegio medico militare di Udine.
Questi atti confermavano i miei sospetti; infatti, nonostante il contrastante giudizio dello specialista da loro stessi incaricato, la commissione dell’ospedale militare di Verona, mi rinviava a quella di Udine confermandone l’ulteriore periodo di inidoneità.
Così, se il mio rientro in servizio attivo in polizia era reclamato dal giudizio favorevole di due specialisti, una vergognosa inerzia degli organi medico/legali dell’ospedale militare di Udine ne osteggiava il compimento.
Inutili e ripetuti rinvii di tale visita si trascinavano da mesi quando, accampando il pretesto di ulteriori imprecisati accertamenti clinici, di natura psichiatrica, pretendevano il mio consenso per ulteriori analisi e per il ricovero presso non meglio precisate strutture sanitarie.
Ancora una volta chiedevo spiegazioni; infatti, non mi era chiaro, come non lo è tutt’ora, il motivo per cui, dopo mesi di rinvii, ora mi veniva chiesto un consenso per delle visite di idoneità al servizio che per prassi ero obbligato a fare.
Mi presentavo infine con un testimone provocando la reazione della commissione medica dell’ospedale militare di Udine; questa, dopo aver intimidito il mio osservatore, tentava di fare altrettanto con me accusandomi d aver introdotto un civile in una struttura militare e chiamando con risibile risultato una pattuglia di carabinieri per identificare l’intruso.
Solo a dicembre 1999 riuscivo finalmente a fare la visita di idoneità al servizio.
La C.M.O. di Udine, però respingeva la mia idoneità certificando addirittura altri sei mesi di malattia ai quali mi opponevo tornando in II ^ istanza all’ospedale militare di Verona; qui, incredibilmente, tale giudizio veniva ribaltato ed essendo idoneo, riammesso in servizio poco tempo dopo.
Dopo una serie di altre vicissitudini professionali, periodi di sospensione dal servizio per precedenti sanzioni disciplinari e addirittura percosse fisiche da me subite ad opera di superiori e inutilmente denunciate, venivo destituito con la motivazione assurda di essermi rifiutato di dare il consenso alle visite alla C.M.O. di Udine avendo provocato, con ciò, grave pregiudizio all’amministrazione di appartenenza.
Il ricorso al Tar del Lazio ha avuto esito favorevole ma il Ministero dell’Interno si opponeva con un’ultetiore ricorso al Consiglio di Stato (tanto mica pagano loro … usano i soldi dei contribuenti … a differenza dei poliziotti che devono opporsi e che si devono arrangiare); dopo pochi mesi, il Cosiglio di Stato emetteva sentenza senza che il mio legale si fosse costituito in giudizio e con un’udienza senza la presenza dell’avvocatura generale dello stato (per il Ministero) e dell’ avvocato difensore (per me).
In questi anni di servizio ho constatato dal vivo e sulla mia pelle la difficoltà a combattere su due fronti … quello “esterno” e “naturale” della crminalità e quello “interno” ancor più subdolo e talvolta cruento, fatto di soprusi, vessazioni, imbrogli, calunnie, intimidazioni al pari di quelle mafiose, mancanza del rispetto delle regole, delle leggi, del senso dell’onore e di quei valori che troppe volte ho visto spegnersi con la vita di colleghi caduti in servizio per una Patria che non ha la forza e il coraggio di liberarsi da questa corruzzione anche morale.
Ma l’italia è anche tutto questo e solo dopo alcuni anni dalla mia ingiusta destituzione dalla polizia di stato ne ho scoperte le ragioni … (www.mlnv.org)
Sergio Bortotto
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ecco la lettera di protesta e di solidarietà nei miei confronti di alcuni cittadini di Treviso
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proprio il “peggior poliziotto”, votato anche come personaggio dell’anno
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ed ecco il pretestuoso motivo del mio licenziamento dalla polizia italiana … basato sempre su falsità
Minacce, indagato Bortotto
L’accusa: ha scritto tre lettere a Sartore, medico della Polizia
di Fabio Poloni
La questura di Treviso: la perquisizione a Bortotto è scattata alle 7
La Digos gli ha perquisito la casa e l’ufficio sequestrandogli i computer, e lo ha denunciato per minacce, accusandolo di aver scritto tre lettere minatorie a Marco Sartore, medico della polizia.
Nel mirino Sergio Bortotto, ex poliziotto, «ministro dell’Interno dell’Autogoverno del popolo veneto», uno degli indagati – l’accusa è di aver costituito un’associazione paramilitare – nell’inchiesta sulla «Polisia veneta».
La perquisizione.
Il blitz è scattato ieri mattina alle sette: gli uomini della Digos della questura di Treviso, decreto di perquisizione alla mano, hanno bussato alla porta di Bortotto.
Dopo aver perquisito la casa e portato via un computer, è stato il turno del posto di lavoro di Bortotto, ovvero l’ufficio per la sicurezza del parco commerciale di Villorba: anche lì la polizia ha prelevato un computer.
L’uomo è stato poi portato in questura a Treviso.
Le accuse. L’avviso di garanzia cita gli articoli 81 e 612 del codice penale, ovvero minacce continuate.
A Bortotto vengono attribuite tre lettere minatorie spedite a Marco Sartore, medico della polizia, nell’ottobre del 2010.
Le lettere, distinte ma uguali nei contenuti («Conosciamo la tua identità e la tua residenza»), sono state spedite da Trevignano, Montebelluna e Valdobbiadene.
«Io non c’entro assolutamente nulla – dice Bortotto – e vorrei sapere come fanno ad attribuirle a me».
I precedenti.
Bortotto fu “espulso” dalla polizia nel 2000 dopo una lunga vicenda, nata da alcune sue denunce contro superiori (prima per una sparizione di droga, poi per peculato e contrabbando) e passata attraverso una causa per mobbing.
C’è proprio la firma del dottor Marco Sartore in alcuni referti medici collegati alla vicenda.
Polisia veneta.
E’ stata rinviata al 21 gennaio prossimo l’udienza a carico dei 6 esponenti della Polisia Veneta, tra i quali Bortotto.
«E’ chiaro – attacca Bortotto – che l’obiettivo di questa vicenda è il nostro movimento.
Reagiremo, anche in sede internazionale, con una denuncia all’Onu.
Vogliamo anche sapere che fine hanno fatto le armi legalmente detenute dal dott. Paolo Gallina, Vice Presidente del MLNV e Capo della Polizia Locale di un Comune della provincia trevigiana e che la polizia italiana avrebbe sequestrato nel 2009, ma di cui non si è mai vista alcuna convalida di sequestro».
(i fatti successivi a questa ennesima inchiesta farsa hanno dimostrato la calunniosa e pretestuosa intenzione delle autorità d’occupazione straniere italiane che ancora oggi, violando gravemente le loro stessi leggi penali e di procedura penale, non sono neppure in grado di concludere l’inchiesta con grave imbarazzo e vergogna delle istituzioni italiane).
Ma che fine ha fatto anche questa inchiesta?
Nessuna, un’autentico buco nell’acqua … una farsa vergognosa che polizia e procura tentano di far dimenticare.
Del procedimento non si sa più nulla così come degli effetti personali “rubati” dalla polizia nella mia abitazione e nei miei uffici e che ancora oggi si rifiutano di restituire.
LADRI!